Centri sociali
occupati, Cassazione li regolarizza… partendo dal
Casertano, grazie all’avvocato caleno Giovanni Merola
Edizione Caserta.it, 13 agosto 2018
Pignataro Maggiore. Vittoria in Cassazione per i centri sociali occupati che da anni svolgono attività in favore del loro territorio, come il ‘Tempo Rosso’ di Pignataro Maggiore nel casertano, i cui attivisti nell’ex macello comunale sono da venti anni impegnati nella lotta all’inquinamento della ‘terra dei fuochi’, la più grande discarica abusiva d’Europa.
I supremi
giudici hanno infatti detto ‘no’ agli sgomberi degli edifici pubblici diventati
sede di centri sociali che per anni hanno portato avanti le loro iniziative con
“l’acquiescenza” del proprietario dell’immobile, che spesso è il Comune,
“ingenerando” nelle persone che occupano “il convincimento” della “legittimità
dell’occupazione”, anche “attraverso atti positivi come il pagamento
dell’utenza relativa al consumo di energia elettrica dell’immobile”.
Così la
Cassazione ha respinto la richiesta di sequestro di ‘Tempo Rosso’ presentata
dalla Procura di Santa Maria Capua Vetere e ha
confermato l’archiviazione delle accuse tra le quali quella di occupazione
abusiva per dieci attivisti, otto uomini e due donne.
L’avviso della Seconda
sezione penale della Suprema Corte, merita conferma l’ordinanza con la quale il
Tribunale di Santa Maria Capua Vetere lo scorso
cinque marzo aveva respinto la richiesta di sequestro del ‘Tempo Rosso’ avanzata
dal pm che aveva aperto un fascicolo nei confronti di dieci attivisti
accusandoli di occupazione abusiva, imbrattamento per via dei murales,
omissione di lavori in edificio pericolante.
Per il tribunale campano,
dato che gli indagati erano dei bambini quando venti anni fa altre persone
diedero vita all’occupazione dell’ex macello, “il Comune aveva prestato
ventennale acquiescenza alla occupazione, sostanzialmente legittimandola, e
impedendo la configurazione del reato” di occupazione abusiva. Quanto ai
murales, per il tribunale, si tratta di realizzazioni che non rientrano “nel
concetto di imbrattamento” e poi non si sapeva nemmeno chi li aveva dipinti.
Nessuna prova inoltre che l’ex macello fosse pericolante, e “in ogni caso – ha
affermato il tribunale con il ‘placet’ degli ‘ermellini’ – non sarebbe spettato
agli indagati porvi rimedio ma, semmai, al Comune proprietario dell’immobile”.
Alla Suprema Corte – con la
sentenza 38483 depositata il dieci agosto – non e’ rimasto che dichiarare
“infondato” il ricorso della Procura di Santa Maria Capua Vetere,
affermando che il reclamo “e’ del tutto generico e non configura alcuna
violazione di legge”.
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