Il casertano e i rifiuti tossici mortali: intervista a Salvatore
Minieri
Oggi tutti la definiscono
la più grande discarica illegale d’Europa. Come se fosse una sorpresa. Come se
non fossero passati anni di denunce. Di allarmi. Di lavoro giornalistico se non
messo a tacere, quantomeno ignorato. Salvatore Minieri è il giornalista
casertano che ha denunciato per primo, con un suo reportage, i veleni nell’area
ex area industriale della Pozzi Ginori tra Sparanise
e Calvi Risorta, in provincia di Caserta.
Non ti ha stupito questa
notizia. Da quanti anni sospettavi la gravità di questa situazione?
Da quando avevo più o meno
15 anni, sentivo parlare – più che altro bisbigliare con molto timore – dei
rifiuti intombati nella zona della Pozzi. Era un
mantra che tutti recitavano a bassa voce, addirittura ex operai di quel parco
industriale parlavano di intere fosse di solventi e fusti, scavate nei pressi
dell’opificio Iplave, quello che produceva proprio
diluenti, vernici e altri prodotti chimici pericolosissimi. Il silenzio delle
istituzioni, degli organi preposti e della politica, è stato il filo rosso
degli ultimi 25 anni. Sono praticamente cresciuto con il sospetto che quello
fosse una sorta di inferno chimico al quale non ci si poteva nemmeno
avvicinare. Poi è arrivata “l’età della ragione” e dell’impegno professionale e
la Pozzi è diventato un punto segnato in rosso nei nostri taccuini, almeno in
quelli di chi crede davvero che il giornalismo possa essere funzionale alla
tutela della salute collettiva. Abbiamo iniziato a lavorarci in tre, nel
silenzio di tutti, nella diffidenza di politica e – purtroppo – di colleghi e
direttori delle testate provinciali. Con Vito Taffuri
e Tony De Angelis, già nel 2008, abbiamo iniziato a raccogliere carte aeree
della zona Pozzi, roba del 1967/1969. Archeologia fotografica, praticamente.
Materiale che altri colleghi avrebbero ritenuto inutile ai fini di
un’inchiesta. L’anno scorso siamo andati in quella zona con un drone e con due telecamere, ma soprattutto con mascherine e
guanti. Due colpi di zappa e il terreno ci è apparso azzurro, rosso, arancione
nel primo strato. Poco più sotto, le nostre zappe affondavano in una strana
melassa nerastra, maleodorante e piena di granuli scuri. Un inferno, davvero. Quelle
voci appena sussurrate, quella timorosa rivelazione di un segreto inenarrabile,
si sono condensate nella comparazione tra vecchie cartine degli anni ’60 e
immagini del drone, scattate nel 2014. Dove c’era una
vallata meravigliosa, il drone ci mandava sullo
schermo immagini di collinette anomale e strane formazioni della vegetazione.
Era la conferma: sotto la Pozzi c’era una discarica di materiale pericoloso.
C’è un giornalismo
investigativo radicato sui territori – come il tuo – che spesso non trova
spazio non solo sui grandi giornali nazionali, ma nemmeno su quelli locali. Per
quale ragione, secondo te?
Questa provincia non è
uguale alle altre, lo dico da anni, qui – spesso – il giornalismo è solo uno
stemma da mettere su magliette alle manifestazioni anticamorra. Qui non esiste
l’inchiesta, almeno se non lo consente una parte del sistema politico e
imprenditoriale. Ormai è roba da associazionismo deciso e controllato nei
salottini dei Municipi o in qualche studio professionale dei soliti protagonisti
di una politica retriva, incapace di cambiare davvero idee e facce. Avvilente,
davvero.
Il giornalismo investigativo, in questa terra a forte trazione camorristica,
non trova spazio perché implica impegno, costanza, equilibrio e, soprattutto,
impone la mancanza assoluta di padroni ed eminenze da ringraziare ogni giorno.
Difficile trovare persone disposte a rinunciare allo stipendio nelle redazioni,
sempre più simili ad anomiche catene di montaggio di un ufficiostampismo
polveroso. Non sono ironico quando dico che il giornalismo locale non fa
inchiesta per non sporcarsi le mani o per non infastidire l’amico dell’editore.
E’ veramente questa la cifra di una larga fetta della stampa, non solo
casertana.
Poi, c’è una sorta di terzo livello che impedisce alla notizia vera,
all’inchiesta libera e indipendente di venire a galla. E’ un anello di persone
legate proprio a quel mondo associazionistico che spesso cena e pranza con la
politica. Le associazioni e molta politica hanno entrature muscolari in alcune redazioni,
e allora piazzano i loro uomini, chiedendo loro di filtrare, smussare,
edulcorare. E qui il lavoro di chi fa inchiesta diventa difficile, perché siamo
costretti a scavare senza alcuna tutela, esposti a ogni rischio personale. Da
uomini che dovrebbero essere sotto una luce costante, ci riducono a operai
carsici, in costante lotta per far emergere notizie e, come in questo caso,
discariche. Ma basta guardare la differente metodologia che usa la stampa
locale per capire che da noi c’è un ambiente disturbato: c’è chi mette in campo
droni, mascherine, interviste ai testimoni, ricerca
costante – e pericolosissima – delle fonti e chi, invece, aspetta che arrivi il
comunicato dalla segreteria politica, o peggio, dal referente delle famose
associazioni che controllano il terzo livello. Vi sembra un posto normale per
chi vuole fare inchiesta?
In questi anni, come Enzo Palmesano, sei stato lasciato solo a fare inchiesta…
Non solo in questi anni
appena trascorsi, ma ancora oggi con pochissimi colleghi – al massimo cinque su
migliaia di giornalisti di questa provincia – formiamo una sorta di riserva
indiana in perenne quarantena. Enzo Palmesano,
maestro, collega, ma soprattutto amico in questo recinto nel qualche da anni ci
confinano, dice che siamo al centro di un cordone sanitario: le nostre notizie,
in alcune redazioni, vengono cestinate non per i contenuti, ma per la firma.
Sfido chiunque a dire il contrario. Da anni scrivo nomi e cognomi dei clan, dei
colletti bianchi e del sistema verticistico che controlla camorra e la nuova ecocamorra messa in piedi da un personaggio come Cipriano Chianese, le redazioni spesso cestinano. Dopo un mio
reportage su Chianese, iniziò il cordone sanitario
nei miei confronti. Non credo fosse strettamente legato al nome dell’avvocato Chianese, ma mi silenziarono perché stavo facendo un
giornalismo che qui non piace ai più: certi nomi, quando li scrivi, sono
davvero pericolosi e allora meglio parlare di giostrine
per i bambini, tombini intasati, consiglieri comunali che cambiano cinque
partiti in una settimana. Roba da giornalino Scout, insomma. Oggi, la
quarantena continua e da innominabili, siamo diventati “giornalisti locali”, il
massimo sforzo intellettivo di questa stampa provinciale. Troviamo una
discarica tra le più grandi d’Europa e, l’unico punto da non dimenticare per
certi giornali, è “non scrivete i nomi dei giornalisti che hanno fatto
l’inchiesta”. Le prove sono su molti giornali cartacei e su altrettanti siti on
line. Dannato memoriae da provincetta omertosa. Sapete chi è più lontano da noi? La
politica. Quella politica che fino a poche ore fa invitava a non credere ai
giornalisti sulla questione discarica Pozzi perché, si legge in comunicati
ufficiali, “creano solo allarmismo o fanno terrorismo sociale”. Capito? La
politica non condanna chi ha sversato per 35 anni
rifiuti tossici mortali, ma i giornalisti che li hanno scovati. Cabaret e
passerelle. Siamo fermi alla peggiore prima Repubblica.
Si è scoperta una discarica
nient’affatto randomica e causale, non oggetto di sversamenti occasionali, ma un luogo scientificamente organizzato…
Verissimo, è una discarica
tecnicamente avanzata e, per quanto possibile, gestita in maniera molto
razionale. Ma anche questo dato, nelle ultime ore, è stato contestato da
qualcuno che vorrebbe far passare quel luogo per discarica pertinente solo a un
sistema industriale perverso e privo di scrupoli. Niente di più falso, perché
la camorra in oltre trent’anni di sversamenti ha
sfruttato tutte le zone, soprattutto quelle come la ex Pozzi. La dimostrazione
è proprio il sistema a invaso che è caratteristico delle zone di Casal di
Principe e altri centri dove i clan hanno gestito discariche e aree di
deposizione. Oltre dieci metri di scavo con sversamento
a strati. Sopra ogni strato veniva posto una sorta di tappo in concrezione
cementizia. Quel tappo si rinviene anche della discarica ex Pozzi di Calvi
Risorta. Quel sistema “a panino” lo hanno inventato i clan e lo hanno
esportato, sversando di tutto, anche qui, nella
discarica industriale abusiva più grande d’Europa. Il lavoro della Forestale ha
portato anche alla luce una sorta di catalogazione criminale: nei primi ettari
a destra un tipo di rifiuto. Più in fondo fusti e altri scarti industriali
pericolosi. Scientifica, organizzata. Non è una discarica fatta da neofiti, ma
una Babele tossica, allestita da professionisti del settore. Quei
professionisti li gestiva, e ancora ogni li controlla, la camorra. Altro che
proclami contro l’allarmismo dei giornalisti.
Sul territorio ci sono
associazioni – anche composte da scienziati – che continuano ad affermare che
alcuni media, alcuni giornalisti, ingigantiscono il problema rifiuti in
Campania. Perché seconde te?
Sì, eccome. Credo siano
quasi tutte propaggini delle parti politiche, appunto. Manipolano e goffamente
cercano di trovare qualche Giordano Bruno da ardere, magari nel campo
dell’informazione. Proprio in queste ore ho letto comunicati che parlano di
“discarica non del tutto pericolosa”. “Non del tutto”, capite? Poi siamo noi a
fare terrorismo. Pur di manipolare, si scrive una castroneria come “non del
tutto”. Immagino sulla discarica dei cartelli con “attenzione, a destra rifiuti
pericolosi, a sinistra, non del tutto”. Capite che siamo davvero alla pantomima
mediatica, pur di non ammettere che ci siano 25 ettari di rifiuti pericolosi
nel cuore di una conurbazione di oltre ventimila abitanti. Ma poi ci sono
elementi da non sottovalutare. Associazioni composte da scienziati, sì. Ma
anche da persone che spesso sono titolari di incarichi professionali elargiti
dalla politica. Io non credo alla separazione degli incarichi, all’etica delle
divisione tra pubblico e privato. Se fai parte di un’associazione che esprime
pareri sui disservizi creati dal sistema politico, non puoi essere anche il
professionista incaricato da quella stessa politica per alcuni pareri, pagati
con fondi pubblici. E’ vero che siamo la terra di Pulcinella, ma qui siamo
all’Arlecchino Servo di Due Padroni. Purtroppo la situazione è diventata goldoniana proprio per questo. E, al solito, la stampa non
scava in queste possibili incongruenze tutte campane.
Che cosa succederà ora, si
riuscirà ad arrivare a una bonifica dell’area?
No, non ci credo. Su
quell’area vogliono costruire una centrale a biomasse, figuriamoci se possiamo
aspettarci una bonifica. Ma dirò di più: il titolare del piano di realizzazione
della centrale si chiama Iavazzi, è socio della Iavazzi Ambiente, una società che svolge servizio di
raccolta rifiuti a Calvi Risorta e a Sparanise (un
comune vicino che affaccia proprio sul sito ex Pozzi), proprio dove c’è la
discarica più grande d’Europa. I sindaci si oppongo a Iavazzi
in Conferenza di Servizi per la centrale a biomasse, poi rinnovano alla stessa
cordata imprenditoriale il contratto di raccolta rifiuti. Non so, ma io non la
vedo una strategia così lineare e logica. Sulla bonifica in senso più canonico,
mi aspetto la massima attenzione da parte degli organi di controllo perché
iniziamo a sentire troppe voci. Si parla sempre più insistentemente di
infiltrazioni dei potentati camorristici nelle società specializzate. Rischiamo
di ritrovarci aziende controllate dalla camorra a bonificare un’area devastata
dalla camorra stessa. Dopo i sindaci che protestano in pubblico contro una
società alla quale rinnovano i contratti negli uffici dei Comuni, potrebbero
esserci anche i clan a spartirsi la torta dell’inquinamento provocato dagli
stessi cartelli delinquenziali.
Visita www.CalviRisorta.com